La Necropoli di Porto all’Isola Sacra
In epoca romana i viaggiatori che si avvicinavano alla città attraversavano vere e proprie vie sepolcrali: le strade, infatti, erano fiancheggiate per chilometri da monumenti funebri che con le loro incisioni interpellavano i viandanti e li invitavano a fermarsi un attimo: dal più conciso “resta viator, et lege” (fermati viandante e leggi) fino a versi più elaborati: “Viandante, chiunque tu sia, dirigi qua i tuoi occhi, e leggi quale nome custodisce questo monumento”.
Le necropoli romane entravano prepotentemente nel quotidiano dei vivi: tra le lunghe file di sepolcri delle vie più importanti e trafficate, mercanti e contadini offrivano ai passanti le loro merci; all’interno di alcune delle tombe più grandi vi erano addirittura cucine e sale da pranzo in cui i congiunti, in ottemperanza al desiderio del defunto, si recavano in determinati giorni per banchettare insieme.
Il sepolcro era anche uno status symbol: i posti più ambiti erano quelli sul fronte strada, possibilmente nei pressi delle porte della città o di incroci importanti.
I cimiteri sulle grandi vie di uscita da Roma si svilupparono dunque soprattutto in lunghezza. In molte località però cominciarono ad estendersi anche in profondità grazie alla costruzione di vie parallele su terreni che diventavano meno costosi via via che si allontanavano dalla strada principale.
Costruzioni imponenti si alternavano a tombe semplicissime, come nella necropoli di Porto a Isola Sacra, dove in mezzo a grandi sepolcri sono state rinvenute le “tombe dei poveri” riconoscibili per il semplice bordo in mattoni o la copertura fatta con mattoni messi per obliquo l’uno contro l’altro.
La denominazione di “Sacra” attribuita all’Isola compresa tra la Fossa Traiana e il Tevere (Fiumara Grande), è presente già nel “de Bello gothico” di Procopio (536-537), e dovrebbe riferirsi alla presenza di molti edifici di culto cristiani, primo fra tutti la basilica di Sant’Ippolito, noto e venerato martire portuense.
L’area della Necropoli – scavata negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – e composta di oltre 200 edifici funerari, si è sviluppata tra la fine del I e il IV secolo d.C. ai lati della via Flavia, che collegava Porto con Ostia.
La maggior parte delle tombe rinvenute è formata da una cella a uno o due piani, solitamente quadrata, alla quale spesso veniva addossato un recinto. Le celle potevano essere coperte con volte a botte o con un terrazzo piatto, mentre le facciate in mattoni erano movimentate da timpani triangolari ed elementi in travertino.
Le iscrizioni in latino o in greco riportano il nome del proprietario, le dimensioni della tomba, le disposizioni testamentarie e le norme d’uso del sepolcro. Sulla facciata di alcune è presente un bassorilievo in marmo o terracotta raffigurante il lavoro praticato in vita dal defunto. I rilievi sono esposti nel Museo di Ostia Antica, mentre sul posto restano dei calchi in gesso.
Il mondo degli artigiani, dei piccoli commercianti e dei salariati aveva una propria scala di valori e la soddisfazione e l’orgoglio per il lavoro svolto oltre che esprimersi nei tanti “me fecit …” (“mi ha fatto …”) incisi sulle opere realizzate veniva esplicitato nelle iscrizioni tombali e nelle raffigurazioni stesse dei mestieri sui sepolcri, dove l’artigiano si faceva ritrarre non con la toga romana, ma con l’abito da lavoro.
Famoso è il bassorilievo tombale della levatrice Scribonia Attice, con la partoriente nuda seduta sulla sedia gestatoria, assistita da un’ostetrica e da una donna in piedi che le passa le braccia sotto le ascelle.
In quel tempo nella stanza della nascita entravano di regola solo donne; accanto alla partoriente vi erano una levatrice (obstetrix) e forse una o più aiutanti; se era presente un medico, questo stava in seconda fila, dietro la levatrice. Dopo averlo prelevato dal ventre materno (effusio) si verificava che il neonato fosse in buone condizioni; si procedeva poi al taglio del cordone ombelicale. Queste operazioni, dette levare, erano eseguite appunto dalla levatrice, che gli faceva il primo bagnetto e lo depositava nella culla.
Possiamo osservare sugli altri bassorilievi il chirurgo nell’atto di operare – insieme a una custodia con strumenti chirurgici, tra cui molti bisturi di varie forme – il fabbro nella sua officina, il commerciante di grano, un venditore d’acqua o un fabbricante d’anfore raffigurato mentre regge con la mano sinistra un grosso recipiente. Sono rappresentati anche lavori umili, come il calzolaio o il cordaio. In un’officina di marmorari, inoltre, gli operai tagliano, lavorano e trasportano grosse pietre.
Riferimenti ad arti e mestieri sono anche nei mosaici, come quelli con scene di aratura, di zappatura del seminato e di mietitura. Nel mosaico della tomba 43, due navi a vele spiegate, con due barchette a rimorchio, si dirigono verso un faro a quattro piani, con un fuoco sulla cima. E’ il faro di Porto e l’iscrizione in greco “ode pausylypos” (“qui è la fine degli affanni”), ricorda al passante che la morte per l’uomo, come il porto per le navi, è l’approdo sicuro che ci libera dai mali del mondo.
Meno costosi erano i posti nei columbaria, grandi locali simili a colombaie con innumerevoli nicchie (ollae) per le urne con le ceneri, che si svilupparono soprattutto nel I secolo d.C.
Nella necropoli era presente anche uno strato sociale più povero, che seppelliva i propri morti nelle aree rimaste libere tra una cella e l’altra; si tratta di tombe a cassone, tombe alla cappuccina (con una copertura di tegole a doppio spiovente), sepolture in casse di legno, in anfore o addirittura nella nuda terra.
Le ceneri dei defunti erano poste in olle o anfore e interrate. Anche gli inumati, essenzialmente i bambini, potevano venire sepolti nelle anfore. Per gli adulti si utilizzavano più frammenti di anfore diverse.
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