La misura dell’uomo
La montagna ha il valore dell’uomo che vi si misura, altrimenti, di per sé,
essa non sarebbe che un grosso mucchio di pietre.
(Walter Bonatti)
«Montagne montagne montagne, io vi amo», amava ripetere Pier Giorgio Frassati, il cui desiderio era passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria pura la grandezza del Creatore. Lì, dove l’orizzonte è nascosto, il nostro sguardo punta in alto e l’uomo è spinto a cercare e superare i propri limiti, a misurarsi, scalando a mani nude una parete o semplicemente risalendo un sentiero.
In alta montagna si rivela splendidamente la potenza, la maestà, la bellezza di Dio: ne era convinto Angelo Ratti, salito al soglio pontificio con il nome di Pio XI, che da giovane prete fu autore di vere e proprie imprese entrate nella storia dell’alpinismo italiano.
Ma la montagna, oltre che luogo può anche rappresentare un viaggio dentro noi stessi, alla ricerca di quelle domande che nella vita di tutti i giorni releghiamo forse solo nel momento in cui aspettiamo di addormentarci, nel silenzio di una stanza buia.
Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
(Salmo 8)
Come Elia sul monte Oreb, ci ritroviamo ad aspettare la risposta nel mormorio di un vento leggero (1Re 19, 12)
Faccio parte anch’io dei Tuoi pensieri? La grandezza dell’uomo, di poco inferiore a un angelo, coronato di forza e splendore, sta nel riconoscere la propria fragilità, nella consapevolezza che Dio – come dice Papa Francesco – non ci sceglie a motivo della nostra bravura, ma proprio perché siamo e ci sentiamo piccoli.
È quel senso del limite che combatte la nostra arroganza nel sentirci padroni del mondo, capaci di stravolgerne gli equilibri o addirittura comprometterne l’intera esistenza. Sentirsi piccoli, percepire la nostra dimensione atomica nei confronti dell’universo che ci circonda, granelli di sabbia, piccole pietre su un ghiaione infinito: solo così, riconoscendoci bisognosi, riusciamo a sentire lo sguardo di Dio su di noi, la nostra importanza come singoli, per Lui. Riconoscerci fragili e cercare la Sua mano, affidandoci al Padre che è sempre accanto a noi e sempre è pronto a rialzarci nelle tante cadute della nostra vita.
In questo, la montagna rappresenta quasi una scuola di vita, come disse Giovanni Paolo II (Angelus, 11 luglio 1999): “In essa si impara a faticare per raggiungere una meta, ad aiutarsi a vicenda nei momenti di difficoltà, a gustare insieme il silenzio, a riconoscere la propria piccolezza in un ambiente maestoso”
Anche un semplice sentiero in salita, con il passare delle ore, sembra quasi portare in un’altra dimensione, come racconta Primo Levi in “Ferro” (Il sistema periodico, 1975): “Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove».
La montagna come misura del limite oltre che limite stesso: quella vetta tanto agognata è il punto più lontano dal mondo, ma ancora troppo distante dal cielo. È un balcone privilegiato da dove ammirare altre vette, altri traguardi, altri limiti, e dove scrutare il nostro io.
La montagna come scuola di umiltà, perché non bisogna mai dimenticare che il traguardo di una scalata non è la vetta, ma il ritorno a casa, e dunque affrontare la salita – come scrive Antonia Pozzi – armati di una fragilezza ardente.
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnammo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terraAntonia Pozzi (Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929).
Piccoli e fragili, eppure proprio per questo capaci di superare i nostri limiti, permettendo alla nostra anima di elevarsi al di sopra di ogni vetta.
Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole
(Antonia Pozzi)
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