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Corviale, vita parrocchiale al tempo del Covid. Un libro fotografico

Libro fotografico Corviale

Corviale, vita parrocchiale al tempo del Covid. Un libro fotografico

“Perché forte come la morte è l’amore”: questa citazione dal Cantico dei Cantici è il titolo del libro che racconta con mie fotografie e testimonianze, la vita parrocchiale durante la pandemia nella comunità di San Paolo della Croce a Corviale, periferia sud-ovest della capitale.

Qui la mia intervista al parroco, don Roberto Cassano, pubblicata dal Sir.

Ecco alcune fotografie pubblicate nel libro

Se n’è parlato anche nella trasmissione di TV2000 Il diario di Papa Francesco, che ha ospitato don Roberto Cassano in studio:

Tra le storie e le testimonianze pubblicate, anche la mia, che racconta questo periodo che ha sconvolto la vita di milioni di persone e cambiato il nostro modo di relazionarci e vivere il presente. Un racconto di parole e fotografie.

Quando tutto è iniziato, tutto quello di cui avevamo bisogno non c’era.

Non c’erano mascherine, le uniche che avevamo mai visto erano quelle indossate dai medici in sala operatoria o nei film. Non conoscevamo neanche il nostro nemico invisibile, sapevamo solo che si trasmetteva per via aerea, come l’influenza, e che era meglio indossare anche i guanti.

Non c’era il gel disinfettante, subito sparito. Addirittura era venuto a mancare l’alcol etilico in farmacia. Ma eravamo pieni di tutorial sui social che ci mostravano come pulire bene le mani, fischiettando anche una canzoncina per utilizzare tutto il tempo necessario ad igienizzarle per bene.

A portata di mano, anzi a distanza di braccio, era rimasto il distanziamento, quello era gratis (e lo è tuttora) e a buon cuore dei singoli. Un distanziamento che ha minato la nostra socialità, non potendo più abbracciarci o parlare a bassa voce. Ma abbiamo imparato a leggerci negli occhi, perché un sorriso passa anche da lì, da come li strizziamo.

Questo virus ci ha separati, anche al lavoro, almeno chi ha avuto la fortuna di avere un lavoro. Sì, siamo arrivati al punto di dichiararci fortunati perché in possesso di un regolare contratto e le giuste garanzie, ma tant’è. Molti sono rimasti senza niente per mesi, per un anno intero.

Ha separato anche i bambini e i ragazzi, togliendo loro i rapporti con i loro coetanei e i professori, costringendoli a lezioni a distanza e a nessuna attività sportiva, uniti solo dalla Playstation in interminabili partite online.

Smartworking, DAD, commercio elettronico, banda larga: in pochi mesi abbiamo cambiato il nostro stile di vita e colmato – come Paese – il divario che avevamo con gli altri stati. Ma questo, purtroppo, ha allontanato ancora di più chi non aveva i mezzi a disposizione, economici e tecnologici: la mancanza di dispositivi per tutti, un collegamento dati sufficientemente veloce, spazi personali all’interno delle abitazioni e anche le basi per poter utilizzare al meglio tali dispositivi.

Durante il lockdown l’unico momento di convivialità – se non possedevi un cane da portare a spasso – era la fila al supermercato che di due metri in due metri si snodava dall’interno fino in strada. Ma poteva capitarti, e così era quasi sempre, qualcuno che non conoscevi e allora anche lì, in mezzo alla strada eri da solo con il tuo cellulare, connesso con il mondo e staccato da tutti.

Bolle, eravamo immersi nel nostro piccolo universo che non aveva punti di contatto con quello degli altri.

Tra le cose che mancavano c’era anche la farina perché tutti, ma proprio tutti, avevano cominciato a fare il pane in casa, forse più per quello che rappresentava, come simbolo di alimento primario e di unità del nucleo familiare. Si sfornava e si postava sui social per mostrare a tutti le proprie abilità: pizze, pagnotte, panini; si mostravano perché era l’unico modo di condividerlo con gli altri.

Ma c’era un altro pane che stava mancando: quello della Mensa Eucaristica. Non era possibile la domenica andare a Messa e così la comunità si ritrovava su Youtube ad assistere alla diretta streaming della celebrazione, a una diretta senza Pane. La parrocchia aveva dovuto reinventare uno spazio, uno spazio virtuale dove condividere il dialogo, la preghiera, il gioco. Uno spazio virtuale frequentato da persone reali, famiglie che si sono strette insieme nella difficoltà del momento.

La Messa di Pasqua 2020 è stato forse il momento più forte: il sole che entrava dalle vetrate illuminava solo i banchi vuoti e durante l’omelia, dall’ambone gli occhi del sacerdote cercavano invano altri occhi su cui posarsi.  

In tutto questo, con l’assenza delle offerte e nelle difficoltà logistiche del momento, la carità non si è mai fermata, continuando a distribuire pacchi ai più bisognosi del quartiere.

Poi, piano piano, siamo tornati a uscire e ad assistere alla prima Messa all’aperto, di nuovo ci siamo avvicinati all’Eucarestia, con le pinze però: si proprio le pinze che asetticamente distribuivano il Pane di vita.

E poi di nuovo in chiesa, con l’aiuto dei volontari che distribuivano gel e informazioni su dove sedersi, regolando ingresso e uscita.

Tutto questo anno andava documentato, per ricordare, per fare memoria e dunque, fin dall’inizio, ogni settimana è stata fotografata: istanti di comunità nell’unico appuntamento pubblico rimasto durante il quale potersi ritrovare e scambiare, con tutte le accortezze del caso, parole, cenni, sorrisi. Nelle mie foto c’è il racconto di un anno, un anno in cui è mancato tutto.

Mauro Monti
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