La corsa dei berberi e il Carnevale romano

corsa dei berberi

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“Il carnevale romano non è una festa che viene concessa al popolo, ma una festa che il popolo si concede”: questo scriveva Wolfgang Goethe alla fine del Settecento nel suo Viaggio in Italia, raccontando il suo soggiorno romano e, in particolare, proprio il periodo del carnevale. Questa festa segnava il momento nel quale ognuno si sentiva libero di esprimersi in piena libertà, dove all’infuori delle coltellate tutto era permesso, dove si assottigliava, fino quasi ad annullarsi, la distinzione tra potenti e umili: tutti si confondevano con tutti.

Il teatro principale del carnevale romano era la via Lata, oggi via del Corso, che prese proprio questo nome dalla corsa dei cavalli berberi che si svolgeva lungo tutta la sua lunghezza e durante tutti i giorni dei festeggiamenti. I due limiti della gara erano rappresentati dall’obelisco di piazza del Popolo, dove avveniva la partenza e Palazzo Venezia. Durante tutto il resto dell’anno, i cittadini più ricchi percorrevano questa strada in carrozza tenendo la sinistra, mentre lo spazio centrale era riservato alle autorità (principalmente ambasciatori): una sorta di corsia preferenziale ante litteram. La circolazione procedeva con ordine fino all’ora di notte, superata la quale ognuno si muoveva a suo piacimento.

I cavalli utilizzati per la corsa, che gareggiavano senza fantino, venivano allevati proprio per questo scopo; erano di piccola taglia e chiamati berberi per la loro origine esotica. Ogni cavallo era rivestito di una coperta di tela bianca ben aderente decorata con nastri multicolore. Qualche giorno prima dell’inizio delle gare, i cavalli venivano portati davanti all’obelisco, nel punto esatto della partenza, abituati a stare fermi qualche minuto e poi accompagnati fino a piazza Venezia, dove gli si dava un po’ d’avena. Questa pratica veniva ripetuta più volte per tutti i cavalli in gara. Agli inizi di questo tradizionale appuntamento le grandi famiglie romane allevavano i cavalli per la gara, si facevano scommesse e le vittorie erano celebrate con grandi banchetti ma con l’andare del tempo, questa ambizione di vittoria si trasferì ai ceti più bassi.

Il premio consisteva in un pallio, un pezzo di stoffa dorata o argentata, lungo circa due palmi e mezzo e largo meno di uno, che veniva fissato a mo’ di stendardo in cima ad una pertica variopinta; sul lembo inferiore erano ricamati dei cavalli da corsa.

Nei pressi dell’obelisco veniva costruita una tribuna con molte file di sedili rivolti verso il rettifilo del Corso e davanti si sistemavano le transenne tra le quali stavano i cavalli in attesa del via. Sui due lati, due grandi tribune si congiungevano con le prime case del Corso. Anche sulla via stessa, dove possibile, si posizionavano delle tribune e soprattutto venivano poste delle transenne in corrispondenza di piazza San Carlo e di piazza Colonna, per mantenere inalterata la larghezza della pista. Per evitare che i cavalli scivolassero sul selciato, infine, veniva gettata pozzolana al centro del Corso.

I cavalli, secondo l’ordine sorteggiato, venivano condotti da stallieri in costume fra le transenne della partenza, erette dietro ad una fune; allo stesso modo di come possiamo vedere oggi durante il Palio di Siena, i cavalli scalpitavano e venivano tenuti a fatica; a volte si aprivano un varco verso lo stallo vicino, altre volte superavano con un salto la fune, non facendo altro che alimentare ancora di più la tensione. Il momento della partenza era decisivo: gran parte dell’esito finale dipendeva dalla capacità di partire in testa. Al momento del via, quando la fune si abbassava, i cavalli si gettavano con veemenza sul tratto sgombro della piazza per guadagnar terreno, ma una volta imboccata la strettoia del Corso, ogni manovra di sorpasso era quasi sempre inutile. Il rischio era di impattare contro una carrozza parcheggiata lungo la via o contro una transenna, con conseguente caduta a cascata. La folla accalcata ai lati della strada si riversava al centro man mano che i cavalli velocemente coprivano il tragitto e sfrecciavano verso piazza Venezia dove, intanto, altri stallieri aspettavano dentro un recinto chiuso, agguantando i cavalli all’arrivo e imbrigliandoli con maestria. A conclusione della corsa veniva sparata una salva di piccoli mortai e il segnale ripetuto a metà del Corso e presso l’obelisco di piazza del Popolo. Questo segnava anche lo sciogliete le righe: le guardie smontavano e non era più osservato l’ordine di circolazione delle carrozze che cominciavano così a conquistare il centro della strada, disturbando anche il defluire della massa dei pedoni. Insomma il traffico di Roma, ieri come oggi, regnava sovrano, ma era un modo come un altro per concludere nella confusione e con spirito allegro un altro giorno di follia.

Mauro Monti

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